Artemisia, audace regina dell’arte e di un mondo che non cambia

Se Omero fosse uno scrittore contemporaneo narrerebbe la sua seconda Odissea dedicandola ad una donna, del resto, anche un uomo del passato come lui agilmente comprende che per esser definito un letterato politically correct di successo al giorno d‘oggi,  deve  avere delle quote rosa nella sua bibliografia. Omero racconterebbe di lei, la regina audace e pugnace della storia dell’arte e di un mondo che non cambia, rendendole l’omaggio che davvero merita. Fosse anche solo per il nome che porta: Artemisia o Arte e Misia Gentileschi.

di Cristiana Zamboni

Autoritratto come allegoria della pittura Artemisia Gentileschi 1638-39 photo www.wikipedia.org

E se il grande libro dell’arte ci mostra pagina dopo pagina, opera dopo opera, quanto intelletto e quanta abilità in continua evoluzione vi sia nell’animo umano, altrettanto evidenzia l’amara orbita in cui alcune artiste abbiano viaggiato nel tempo.

Spesso classifichiamo il regno umano in due generi, uomini e donne o maschi e femmine, come si preferisce, affidando alla natura o a un qualche scritto lasciato da un dio forse non troppo attento all’uomo che stava creando, l’ardito compito di decidere chi sia il più forte e di conseguenza, colui che debba sedere sul trono dei potenti.

La violenza sulle donne è antica come il mondo, ma oggi avremmo voluto sperare che una società avanzata, civile e democratica non nutrisse le cronache di abusi, omicidi e stupri.

Helga Schneider

Eppure, attraverso le note scandite dalle pennellate di quegli artisti che ci raccontano la magia della storia e dell’umanità, è evidente l’estrema staticità mostrata di un mondo intrappolato, per comodo o per scortesia, in dinamiche che portano solo a violenza e odio.

Un modus operandi che sembra esser solo stato sfiorato dal progresso e dall’evoluzione. Ad oggi poco è cambiato dai tempi di Artemisia Gentileschi, e quel poco si genera nella sensibilità di chi non divide l’essere in due generi, ma lascia spazio infinito all’individualità delle persone. Microcosmi che nascondono nel loro intimo una moltitudine di macrocosmi evoluti sulle emozioni, sulle sensazioni e sui desideri, impossibili da classificare.

Le donne forti sono come uragani. Diventano indomabili, quasi irraggiungibili. Non si fermano davanti a nulla. Sono discrete e amano quasi in segreto. Hanno sguardi sicuri e il cuore pieno di lividi. Sorridono e ingoiano lacrime. Loro, sono le donne che fanno la differenza.

Luna Del Grande

Degni di vivere potendo sperare di esser compresi e onorati nella loro capacità e nel rispetto di chi e ciò che sono, ed Artemisia fu sostanza generata dall’ intelletto, dal talento e dalla forza, concentrati in un gesto pittorico estremamente abile nell’arrivare nel profondo dell’osservatore.

Un intimo che Artemisia attraverso le sue opere, cerca di mutare evidenziando a chi guarda, l’ impetuosa furia di una donna violentata, tradita, usata e vilipesa. Guerriera che comunque, pur cercando di dimenticare e continuare a vivere, non perde mai l’occasione per avere la sua vendetta.

… e avrò la mia vendetta, in questa vita o nell’altra.  Massimo Decimo Meridio

Il nome Misia si riferisce all’antica regione dell’Anatolia dove sorgeva  la Troia cantata da Omero nell’Iliade.  E‘ un nome adespota che indica colui o colei che è senza padroni e senza santi.  Ma Artemisia deriva anche da Artemis ed Artemide, Dea della caccia e della luna, chissà se suo padre, Orazio Gentileschi, fu consapevole del peso di quel nome quando decise di chiamarla così.  A sua dispensa, si può dire che Artemisia prese il nome dalla sua madrina, Artemisia Capizzutti, un’aristocratica signora romana.

Il piacere del dipingere sta esattamente nella sensazione dolorosa di sapere che non sta venendo bene. Così provi qualcos’altro e provi e riprovi, finchè ti riesce proprio come vuoi tu. Magari non è perfetta, ma è molto meglio di quando hai cominciato e, quando accade, è una delle sensazioni più esaltanti che esistano, perchè te la sei guadagnata.

Artemisia Gentileschi

Nel percorso creativo di ogni artista ritroviamo alquanto spesso una nota autobiografica, ma le opere di Artemisia vanno ben oltre. Raccontano la violenza in modo estremamente reale e plurale nel suo saperla rappresentare nella duplice percezione di vittima e carnefice, l’artista ha un’implacabile perizia nell’immedesimarsi in entrambi attraverso le immagini, che diventano allegoria simbolica della sua stessa vita.

Artemisia usa molto abilmente la sua tragedia personale per raccontare, raccontarsi e vendicarsi. Pubblicamente espone la sua rabbia, la paura e la vergogna che si trasformano in forza e coraggio, rivivendo i tragici momenti per creare opere in cui, attraverso un linguaggio semplice ed universale, il male e la sofferenza sgorgano dagli sguardi espressivi dei suoi protagonisti.

Artemisia Gentileschi nasce a Roma l‘ 8 luglio del 1593, unica figlia femmina del pittore Orazio Gentileschi e l’unica dei suoi figli che fin dalla tenera età, mostra interesse e talento per la pittura. Decide di tenerla in bottega per preparare le tele e  miscelare i colori.  Osservando il padre e studiando le opere dei grandi pittori, Artemisia inizia a disegnare, perspicace impara molto in fretta ed intorno ai sedici anni dipinge le sue prime Madonne col Bambino.

Molto si è romanzato sulla giovane e promettente artista che si lamentava di non poter ritrarre gli uomini nudi perchè un Papa decise di protegger l’integrità degli occhi femminili che non potevano far arte. Una ragazza che di nascosto rubava i ceri in chiesa dopo i vespri, per poter ritrarsi di nascosto così da studiare l’anatomia umana.

Artemisia fu la prima artista ad usare la tecnica dei tre specchi per osservarsi in una visione completa ed usò se stessa per sperimentare, non curante dell’opinione altrui. Di certo, su di lei, ci rimangono le parole di Longhi e gli atti del processo che la vide vittima di un gioco di orgoglio e supremazia maschile.

La casa e la bottega del Gentileschi erano animate dai grandi nomi dell’arte dell’epoca, Caravaggio era spesso a fargli visita e non potè fare a meno di constatare la grande dote della giovane Artemisia.

Nel 1610 Orazio Gentileschi lavora agli affreschi di Palazzo Pallavicini Rospigliosi , nella loggia di Montecavallo nella sala del Casino delle Muse, insieme al collega ed amico Agostino Tassi, detto lo Smargiasso. Un uomo alquanto iroso,  già stato in prigione per atti violenti. Il suo compito era di creare delle rappresentazioni scenografiche architettoniche su cui, in un secondo tempo, il Gentileschi avrebbe dipinto le sue figure.  Tra queste figure vi è una donna con un ventaglio in cui, alcuni storici dell’arte, affermano vi sia ritratta Artemisia.

Artemisia, a soli diciassette anni, è già un talento nella pittura. Capace e promettente il suo nome risuona nel mondo dell’arte per la sua bellissima opera Susanna e i vecchioni del 1610.

Questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei.

Orazio Gentileschi

Non potendo che costatare la bravura della figlia, Orazio la affida all’amico Tassi per l’insegnamento della prospettiva.  Artemisia era giovane, prosperosa, tenace e molto femminile.

Nel maggio del 1611, durante una di queste lezioni il Tassi, già dedito ad atti di soprusi, decide di violentarla.  Il padre indispettito e preoccupato per il proseguo della sua collaborazione col collega ed amico, concorda col violentatore per un imminente matrimonio con Artemisia per ripagarla del danno morale. I mesi si susseguono ed Artemisia continua le sue lezioni col mastro di prospettiva intervallate da effusioni concesse a titolo di futuro marito, ignara del fatto che Agostino Tassi era già sposato ed aveva già un’altra amante.

Da poco è iniziato l’anno 1612 e Orazio litiga con lo Smargiasso per un’opera concessa o rubata da quest’ultimo. Orazio, ricordandosi del sopruso subito dalla figlia, decide di denunciarlo così da aver ripagata l’opera smarrita.

Per Artemisia inizia il calvario del processo  in cui lei stessa deve difendersi dall’insinuazione di aver sedotto lo stupratore, passando da vittima a carnefice e per poter dimostrare la sua innocenza, ripercorre e racconta nei minimi dettagli l’accaduto, accettando di sottoporsi alla tortura delle Sibille e alle visite ginecologiche davanti ad un pubblico divertito.

Mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzondomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stratta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne. 

Artemisia Gentileschi, dagli Atti del processo per stupro

Le accuse rivolte ad Artemisia furono molte ed esposte con preparata astuzia. La giovane si dovette difendere oltre che dal suo carnefice, dalle calunnie di una donna che frequentava casa Gentileschi con assiduità e che nell’immaginario di Artemisia, aveva sostituito la figura della madre persa da bambina. Un processo  intimidatorio e diffamatorio che portò ad una mai piena assoluzione della giovane offesa nonostante l’accusa, il 27 novembre 1612, condannò Agostino Tassi all’esilio. Durante i giorni del processo si palesarono complotti e segreti e fu chiaro che lo stupro di Artemisia  fu soltanto una scusa per ottener giustizia su loschi mercanteggi ed affari.

Come ho detto mi fidavo di lui, et non haveria mai creduto havesse ardito d’usarmi violenza et far torto et a me et alla amicitia che ha con detto mio Padre, et non mi accorsi se non quando […] mi si mise attorno per violentarmi.

Artemisia Gentileschi, da Atti del processo per stupro.

Il 29 Novembre del 1612, a soli due giorni di distanza dalla fine del processo, Artemisia è costretta a sposare Pierantonio Stiattesi, un mediocre pittore dell’epoca. Il matrimonio non è felice e la vita di Artemisia a Roma è complicata, la malignità della gente rende difficile anche il suo lavoro artstico. Nel 1614 decide di trasferirsi a Firenze. Il padre decantò la sua bravura  in una lettera a Cristina di Lorena, madre di Cosimo II De‘ Medici.  Non si sa bene se per orgoglio personale o per allontanarla. Ormai era diventata molto  più brava di lui e nel 1616 è la prima donna ad essere ammessa all’Accademia delle Arti del Disegno.

Le opere di Artemisia del periodo fiorentino destano grandissima attenzione. Estremo valore pittorico e bravura nella prospettiva si mescolano ad un perfetto utilizzo della luce e del colore. Le sue figure femminili sono espressione di forza e temperamento. Raccontano le gesta delle eroine della Bibbia ma, tra le pennellate, la lettura del suo passato è chiara.

Colma di rabbia e voglia di riscatto, lei si vendica del suo stupratore lì, sulle tele.  Attraverso  Giuditta  che decapita Oloferne.  Negli occhi e nella forza del gesto compiuto da Giuditta , ritroviamo tutta la rabbia  da lei provata per questa sua vita rovinata.

Nonostante la sua bravura ed il suo talento le rimane il difetto di esser donna in un’epoca dominata dalle figure maschili e le commissioni artistiche scarseggiano. Decide di trasferirsi Venezia e poi a Napoli. Fa un unico viaggio a Londra, nel 1638, chiamata dal padre per aiutarlo in un progetto commissionato da Re Carlo I. Orazio però, nel 1639 muore e, dopo una piccola parentesi lavorativa presso la corte inglese, Artemisia ritorna a Napoli dove morirà 31 gennaio del 1654.

L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità.

Roberto Longhi

La sua vendetta, Artemisia la ebbe col tempo. Quando si parla d‘arte, poco s’accenna a suo padre Orazio Gentileschi ed ancor meno a quell‘ Agostino Tassi. Se non legati a lei ed alla storia di violenza e bugie che contornarono la sua vita.  Quando si citano le figure femminili nella storia dell’arte  lei è la prima della lista e si è, sicuramente, guadagnata il trono.

Artemisia si scopre pennellata dopo pennellata senza vergogna e descrive una vita marchiata dal sopruso, dalla violenza e dall’impossibilità di poter dimenticare.  Una vita vissuta cercando di  dimostrare la propria innocenza ed il proprio valore da una giovane tenace e forte nel difendere il suo esser vittima che si tramuta, attraverso il talento, in una donna carnefice consapevole desiderosa di vendetta. Un’artista conscia di se stessa e delle sue capacità, che ha conosciuto solo la parte peggiore della medaglia maschile.

Una donna rappresentativa della sua epoca e di tutte quelle a venire in cui l’esistenza femminile è stata considerata un abbeveratoio per gole voraci ed assetate. Una donna alla ricerca di una complicità femminile ed un calore materno troppo precocemente perso. Omero racconterebbe eccome le gesta di questa grande quota rosa alla ricerca della sua Troia e ne esalterebbe la sua solitudine, le fughe autoimposte e la sua audacia composta in una silenziosa battaglia, acclamando la sua grande ed urlante arte capace di penetrare più della spada di Achille.

E si rammaricherebbe del poco coraggio dell’uomo che crede di poter abbattere una sirena con la violenza e la paura. Mentre, Artemisia Gentileschi ascoltò le sirene nella speranza di vincere la sua battaglia più importante: l’esser amata.


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