In un mondo che appare sempre più chimerico ed edificato su di un infinito collage di immagini subitanee che scorrono il più veloce possibile, quel che conta, qui ed ora, è trovare ogni santo giorno quella giusta dose di anestetizzante quotidiano. Il diktat del mordi e fuggi che ha trasformato l’opera d’arte in una performance dai minuti contanti, stoppandola quel secondo prima che insorga la noia. E poi ci sono artisti che, dimenticati letti disfatti e mozziconi di sigaretta, ebbra giovanile e monetizzazioni di comodo altrui, ritornano alla materia e la plasmano con lo spirito e con le mani. Tracey Emin è una di queste contemporanee artiste che con le sue sculture, ci mostra il lato consapevole dell’arte contemporanea.
Di Cristiana Zamboni
C’è qualcosa di estremamente discordante in questa contemporaneità che scivola fra le dita di una mano dove tutto è frenetico e liquido e l’iper-connessione assume le fattezze di un antidoto alla solitudine e all’incomprensione. Agevolati dal vecchio sistema del copia ed incolla, nulla è più sconosciuto sulla barra del web, che ci permette di scavare fra infinite parole pronte a spiegarci anche l’impenetrabile. Eppure ci si stoppa sempre all’apparenza e cibiamo il nostro intelletto solo del breve titolo.
Siamo stati tutti dei gridi perduti nella notte.
Massimo Recalcati
La sensazione di sentirsi persi e mai abbastanza trascina nella comfort zone protetta anche da quella sottile e materna inquietudine che riaffiora tra i vapori di un post-doccia calda bollente, in quei classici cinque minuti in cui, immobile, guardi scorrere la tua giornata e la tua vita, giusto il breve lasso di tempo ancora umanamente concesso prima che sopraggiunga una nuova noia.
L’introspezione è un’attività che sta scomparendo. Sempre più persone, quando si trovano a fronteggiare momenti di solitudine nella propria auto, per strada o alla cassa del supermercato, invece di raccogliere i pensieri controllano se ci sono messaggi sul cellulare per avere qualche brandello di evidenza che dimostri loro che qualcuno, da qualche parte, forse li vuole o ha bisogno di loro.
Zygmunt Bauman
Una monotonia che non sopraggiunge mai nel vago rincorrere di una primavera che ha deciso di arrivare solo quando il martello del banditore dell’asta più importante al mondo, la dichiarerà l’opera venduta al prezzo più alto mai immaginato prima. Quel che nell’attesa consola è il veder spopolare nel mondo là fuori e nell’etere, un coniglietto argentato come quello delle favole dei bambini, insieme agli squali ed alle storie d’amore finite in un letto disfatto.
Le insicurezze dei collezionisti sono rafforzate dal modo in cui l’arte contemporanea viene descritta. Gli esperti d’arte parlano dell’Impressionismo in termini di pennellata, profondità, uso della luce, trasparenza e colore. Invece quando parlano di arte contemporanea, come lo squalo di Damien Hirst o Crackhead di Terence Koh, usano termini come innovazione, valore d’investimento e dicono che un certo artista è caldo, nel senso di uno sconosciuto divenuto improvvisamente molto apprezzato grazie a un meccanismo di passaparola.
Lo squalo da 12 milioni di dollari – D. Thompson
Ma il tutto, forse, è molto più semplice di quanto si pensi. Potendo chi non cercherebbe di aggiudicarsi un’eterna primavera a qualsiasi prezzo, indipendentemente dal suo significato e dai ricordi che lascerà una volta passata. Un po’ come quel via vai di remoti amori di cui, oramai, non restano che sfocature di polaroid in bianco e nero, con qualche dettaglio a cui il tempo ha reso complicato addirittura assegnare un nome.
Sono sempre stato convinto che la gente abbia un’idea molto limitata di Tracey.
R.Rugoff
Una tra le più sediziose opere contemporanee è proprio una lista di centodue nomi che Tracey Emin amò nella sua vita dal 1963 al 1995. Uno dopo l’altro e con affezione diversa, scritti sulle pareti di una tenda da campeggio. Un’opera andata distrutta in un incendio al Momart nel 2004, dal titolo Everyone I Have Ever Slept With 1963 – 1995.
Il lavoro dell’artista è un continuo scavo nel mistero. Anche nei paesaggi più idilliaci, tra gli alberi e sotto le foglie, gli insetti si divorano l’un l’altro; la violenza fa parte della vita.
F. Bacon
L’arte di Tracey Emin è introspezione allo stato puro ed una forma di autoanalisi messa in atto per cercarsi e cercare una ragione al suo vivere.
La critica ha sempre visto in lei l’eversiva ed indecente artista capace di trasformare la sua vita in un brand ispirato a Schiele in cui sesso e pulsioni sono i primi attori, senza osservare mai troppo accuratamente l’intima scenografia di ogni sua opera.
E’ un’innocenza particolare quella che hanno le persone quando non si aspettano di venir ferite. Chi potrebbe violare questa innocenza senza fare del male anche a se stesso?
Hanif Kureishi
Tracey Emin è nata a Croydon il 3 luglio del 1963. Una ragazzina discola e provocatoria che ama disegnare e dipingere ed incarna la perfetta prefazione dell’artista-come-celibrità intesa da Thompson. Passa la sua adolescenza a Margate, la cittadina dove amava ritirarsi William Turner per dipingere le sue opere.
Fu violentata all’età di tredici anni e cresciuta tra notti anestetizzate dall’alcol e mattinate a chiedersi chi fosse, perennemente furente e consapevole del lato peggiore del mondo. Alla ricerca di un amore stabile che potesse permetterle una vita normale, con dei figli ed un lavoro non criticato.
All’età di tredici anni ho capito che era pericoloso essere innocenti e belle allo stesso tempo. E non è possibile vivere essendo entrambe.
Tracey Emin
Studia al Maidstone College of Art e al Royal College of Art di Londra. Inizialmente si ispira a Munch e Schiele e nei primi anni Novanta entra a far parte del Young British Artists, un gruppo di giovani artisti che espongono in fabbriche e magazzini.
Nel 1992 inizia il suo periodo più buio, quello da lei definito il suicidio emotivo. Distrugge alcune delle sue opere per far spazio alla sua nuova arte confessionale. Momenti della sua vita si trasmutano in istallazioni ed opere d’arte che, a loro volta, si formano diventando simboli estremizzati del disagio e del dolore umano. Opzionali di un nuovo linguaggio creativo che metterà sotto i riflettori la fase di trasformazione del mondo dell’arte contemporanea. Nel 1999 viene organizzata la sua prima mostra personale ed è candidata al Turner Prize con la sua opera My bed.
My bed, oltre a essere l’opera più rappresentativa della Brit Art, è una metafora della vita, del luogo in cui iniziano le sofferenze e muoiono le logiche.
C. Duerckheim
Un’istallazione in cui il protagonista è un letto disfatto che racconta la fine dell’ultimo fallito amore dell’artista. Il fidanzato la lascia e lei reagisce rinchiudendosi in casa passando alcuni giorni sul suo letto. Sopravvive, mangia e dorme. Alterna stati d’animo in cui piange e ride facendosi compagnia con un libro ed una sigaretta. Si distrae con del sesso in uno stato di semi-incoscienza e per lo più completamente sbronza.
Preservativi, assorbenti, sigarette, pillole, briciole di cibo e bottiglie di liquore vuote germogliano abbandonati intorno al talamo acquistando un significato intimo, diventando la fotografia della sua incapacità di gestire l’abbandono e le sue relative emozioni. Agnostica nell’accettarsi olocausto di una vita spinta al limite, segnata da aborti, abusi, insuccessi e solitudine.
Volenti o nolenti l’abbandono ci introduce, dal primo momento in cui lo subiamo, in una terra desolata che non conoscevamo, ci fa ascoltare un timbro inedito della disperazione e della fatica dell’esistere e del desiderare.
E. Trevi
Un’opera potente sul pubblico ed ardentemente criticata ma battuta all’asta per due milioni e mezzo di sterline.
Tracey Emin, è la classica artista osservata dalla critica più per il suo modo di vivere, certamente fuori dalle regole oltremisura, che per il suo talento. Versatile, capace e con una tecnica contemporanea e ventura che spazia tra pittura, scultura, tessuti, fotografia, luce al neon e video. Attraverso la sua arte racconta e confessa all’osservatore una parte di lei. Quella meno convenzionale, con fantasmi e paure ed in modo estremamente onesto.
Eccomi qui, una donna fottuta, pazza, anoressica, alcolica, senza figli, bella. Non avrei mai immaginato sarebbe stato così.
Tracey Emin
Nel 2005 è uscito il suo primo libro, l’autobiografia intitolata Strangeland. Un susseguirsi di visioni tra conscio ed inconscio. Tra arte, eremi, battaglie e dipendenze. Tra femminismo e perdita di sè e della sua identità di donna. Un’identità ritrovata grazie ad una nuova visione romantica della vita acquistata con l’età in un netto cambiamento che non dimentica la ragazzina ebbra e indomita. Anzi, mentre osserva questo mondo strano con una nuova onestà intellettuale e sentimentale, la racconta con tutto il suo coraggio, lo stesso usato per ogni sua opera.
La possibilità di esporre alla Biennale di Venezia è un grande onore e mi ha aiutato a ridefinire il significato del mio lavoro per me. Borrowed Light è il mio lavoro più femminile finora, molto sensuale ma allo stesso tempo graficamente nitido. È sia bello che hardcore. Per me, come artista, l’importante è coprire tutto, dall’emotivo al letterale, e a volte questo significa che mi concedo un periodo molto difficile.
Tracey Emin
Nel 2007 rappresenta la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia con le sue intime e vibranti confessioni. Una Tracey inaspettata si svela sottovoce attraverso una serie di acquerelli e piccoli disegni che alternano la sua vulnerabilità con la rabbia più incisiva. Non è più la sexy testimonial di alcolici ma una donna che vuole solo descrivere tutta la sua afflizione.
Non sei nessuno nell’arte contemporaneafinchè qualcuno non ti brandizza. O non ti bradizzi da solo.
D. Thompson
Tracey oggi è una donna diversa che ha imparato a volersi bene. Consapevole del suo valore anche nell’arte. Le sue opere a sfondo bianco con linee più sottili e definite, in cui tutto appare più sicuro, lo dimostrano. Più razionale e meno sanguigna, ha imparato ad accettarsi. Un dono dell’età, specifica lei, senza mai dimenticare chi è stata e cosa è stata.
I sogni non hanno tempo. Nè il sonno, nè la morte. Ecco perchè, a volte, è bello indossare un orologio.
Tracey Emin
Una nuova visione integralmente raccontata nella sua personale alla Galleria Xavier Hufkens nel 2017 intitolata The Memory of your Touch. Le sculture sono fluide, edotte ed accomodanti, così come i sentimenti ed i ricordi che rappresentano, echeggiando una presenza erotica e sensuale trasformatasi in affezione, nonostante sia sempre presente quella sottile vena di lacuna affettiva.
Il tempo passa, ci trasforma e, silenziosamente, affievolisce il dolore e la rabbia. Forse, in questo tempo così veloce, c’è bisogno di una nuova marcia un po’ più lenta che dia il tempo necessario per comprendere chi siamo e cosa vogliamo essere e con l’età, tutto questo può diventare anche romantico, basta solo imparare ad aspettare.
Del resto, tutto quello che tu vuoi è solo amore.
Bibliografia:
Strangeland – Tracey Emin
Lo squalo da 12 milioni di dollari – Donald Thompson
La salvezza del bello – Byung-Chul Han
Tracey Emin – BORROWED LIGHT- di Andrea Rose, Toby Forwar (Autore), Rudi Fuchs (Autore)
Photo Credit: Le immagini, cc, sono state prese dal seguente link: www.xavierhufkens.com, SaatchiGallery.com , whitecube.com
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Articolo pubblicato su Dartema.com