E se l’arte ci salvasse dalla solitudine di questo tempo

Trovarsi davanti alle opere di Michelangelo, Van Gogh, Chagall, Hopper, Klee, Munch e molti altri artisti non è diverso dal passeggiare, in questo tempo, per le strade della propria città. Vie silenziose e poco trafficate fanno da sfondo a vite che, di tanto in tanto, alzano lo sguardo dai propri pensieri e per un attimo ci lasciano entrare nella loro esistenza. Gli occhi sono lo specchio dell’anima ed attraverso l’arte ci accompagnano nei sentieri dispersi delle emozioni e dei sentimenti. E se provassimo a guardare la solitudine attraverso lo sguardo creativo degli artisti, forse, sarebbe più facile allontanarsi dal suo senso di condanna e trasformarla in arte.

Di Cristiana Zamboni

Un occhio osserva, gli altri sentono. Paul Klee

Angelo smemorato Paul Klee Photo wikipedia.org

 

 

 

La capacità degli occhi di raccontare storie è risaputa, come la loro capacità di portare alla realtà esistenze che vivono davvero solo nella dimensione di un mondo interiore e straniero, dove la solitudine, a volte vissuta come condanna,  si trasmuta in pura liberazione necessaria ad esprimere chi siamo ed il nostro genio creativo. Esattamente come l’amore.

 

 

 

 

 

L’amore non è una cosa che abbiamo inventato noi. È misurabile, è potente. Deve voler dire qualcosa.[…] Magari è una testimonianza, un artefatto di un’altra dimensione che non possiamo percepire consciamente. […] L’amore è l’unica cosa che riusciamo a percepire che trascenda dalle dimensioni di tempo e spazio. Forse di questo dovremmo fidarci, anche se non riusciamo a capirlo ancora. Interstellar

 

Chiedere all’uomo di non sentirsi solo è come chiedergli di non amare. Raramente ama per l’altro ed il più delle volte lo fa per se stesso. Amare diventa un atto necessario per non sentirsi più solo una duplicazione di altri due esseri umani, ma parte di un’intuizione che diventa un pensiero reale.

La solitudine ti fa ascoltare l’anima e spegnere le luci finte. Raffaele Morelli

La teorica dell’arte di Paul Klee, in cui l’immagine creativa nasce attraverso l’intuizione, è l’esempio più concreto. L’opera d’arte non è semplicemente una riproduzione della reltà ma una  ricerca intuitiva che svela, attraverso il pensiero, gli occhi e le mani dell’artista, tutto ciò che vi è di visibile ma che non possiamo, o non vogliamo, vedere.

Coraggio, uomo! Sappi apprezzare questa villeggiatura, questo mutare una volta tanto, come l’aria, il punto di vista… ti aiuta a deporre la spoglia, per qualche istante a fingerti Dio. Paul Klee

Paul Klee è fra i più intuitivi artisti della prima metà del Novecento, non fu solo un grande pittore ma un teorico dell’arte paragonabile a Leonardo con il suo trattato sulla pittura. Nel suo saggio Confessione creatrice enuncia che l’arte deve far apparire e rappresentare ciò che è invisibile all’uomo, deve raccontare di altri mondi e vite possibili, aiutandolo a cambiare il suo modo di osservare la realtà e, comprendere, che non è solo.

Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione. Certo, chi non ne ha mai gustato il sapore non saprà mai ciò che ha perso, ha lasciato indietro, a cosa ha rinunciato. Zygmunt Bauman, Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido

Il linguaggio del corpo, inconsapevole, non sa tradire le vere emozioni di cui vive questo mondo moderno e saperle osservare può portare a perdersi nella più grande contraddizione umana. Per comprenderla non resta che provare disegnarla, lasciarla defluire dagli occhi verso la mano, fino alla tela ed una volta finito, osservarla e conoscerla.

Disegnare aiuta, così come scrivere, a rendere visibile e tangibile la sensazione che vivere questa realtà, spesso deformata dagli accademicismi, dal convenzionalismo e dalla cultura, mostra veramente.  Osservare l’essere umano nelle sue dimensioni, senza stravolgerlo e rappresentarlo è una tecnica che viene in supporto, come la meditazione, al sentirsi come reali e provare a vedersi come gli altri ci  vedono, senza troppi filtri. La nostra immagine, spesso, viene modificata dal giudizio della nostra mente e ci pone sotto i riflettori di un palco fittizio, minando la nostra forma ed il nostro pensiero fino a condizionarne l’intera esistenza.

Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima.
George Bernard Shaw

Donna al Cafè Le Tambourin Vincent Van Gogh 1887 Photo web

 

 

Provare a ritrarsi obbliga i nostri occhi e la nostra mente ad osservarci da una nuova prospettiva. E’ come guardare una foto di anni addietro che ci immortala, ci riconosciamo attraverso le parole di chi l’ ha scattata. Provare a ritrarsi attraverso una foto o l’immagine riflessa allo specchio, potrebbe darci la stessa sensazione. Potrebbe aiutarci a guardarci per la prima volta, a conoscerci.

 

 

 

 

Chi vede correttamente la figura umana? Il fotografo, lo specchio, o il pittore?
Pablo Picasso

In ogni uomo esiste un angolo dove posa, in modo confuso o maniacalmente ordinato, tutti i ricordi e le emozioni intense di cui è sostanza ed è lì che si nasconde per vivere o per far tacere chi è.

La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà. – Fabrizio De André

Ed è in quella solitudine che si scuote la libertà citata da Fabrizio De André, quella che da sempre l’uomo rincorre ma, fuggendola, dimostra solo la sua ciclica incapacità di viverla e di averne paura.

Una solitudine che gli artisti hanno il coraggio di navigare per raccontarla, trasformandola in arnese necessario alla loro ispirazione  per creare. Per taluni è una fonte così alienante da volerla sfuggire per essere come gli altri. Per altri è il luogo dove rifugiarsi per riscoprire la propria originalità. Conditio sine qua non che rende le loro opere immagini uniche e di straordinaria bellezza, capaci di insinuarsi nell’ eremo dell’osservatore ed instaurate una qualsivoglia forma comunicativa che lo spinge a ricercarsi a sua volta.

Interno d’estate Edward Hopper 1909 photo settemuse.it

Nel suo intimo, l’artista, riscopre la sua umanità. Può odiarla e sfuggirla fino alla psicosi ed alla morte, può accoglierla e raccontarla fino ad amarla con una passione travolgente lasciando ogni contatto con la vita reale oppure, può trasformala nel luogo necessario al suo genio creativo. Ecco perché è consigliabile vivere l’arte come un’esperienza interiore, osservata con gli occhi delle proprie esperienze, nella solitudine della propria mente.

E’ attraverso il romitaggio che l’artista arriva all’ essenza umana, subordinata al suo sentimento e la racconta nelle opere.

Senza una grande solitudine nessun serio lavoro è possibile. – Pablo Picasso

Autoritratto Van Gogh 1889 Musée d’Orsay, Paris Photo Google Art & Culture Van Gogh Museum

 

Van Gogh ne è l’esempio eclatante, vive il suo eremo senso  come una malattia che lo trascina nell’isolamento forzato fino alla pazzia. Si percepisce diverso dagli altri e questo gli fa paura, gli crea una forte sensazione di disagio che lo porta ad esprimere atteggiamenti inconsueti e, a volte, carichi di violenza verso se stesso. Vuole omologarsi con il genere umano, vuole sentirsi parte di un insieme e, nonostante non sia solo, la sensazione di emarginazione lo avvolge. Per contrastarla si immerge nella natura, cammina e dipinge all’aperto in grandi distese di giallo color del grano e blu del cielo ed affida i suoi tormenti interiori alle infinite lettere destinate al fratello Theo.

 

 

 

 

Poco prima di morire, ultimata l’opera più rappresentativa di questo sua battaglia con se stesso – Campo di grano–  in una lettera al fratello, scrive:

Sono immense distese di grano sotto cieli nuvolosi e non mi sento assolutamente imbarazzato nel tentare d’esprimere tristezza ed estrema solitudine.

Campo di grano, Vincent Van Gogh 1890

Campo di grano con volo di corvi
Vincent van Gogh 1890 Photo Van Gogh Museum
Google Arts & Culture

Cerca di stemperare la solitudine ricercandosi nei suoi molteplici ritratti in una forma di auto-identificazione in cui le similitudini fra lui ed  il mondo a cui vuole appartenere, sono il vero soggetto. E’ un uomo estremamente geniale nel leggersi dentro esattamente come nell’arte sono immense le sue pennellate, l’angoscia che prova per il suo futuro sofferente è tutto narrato in quei tratti che lascia sulla tela, consapevoli e ben definiti così come gli è tangibile il sentirsi carcerato in una fragilità psichica che lo porta a dondolare tra impetuosità, confusione, guerra e brevi attimi di lieve pace, profondi respiri e silenzi.

Trauernder alter Mann Vecchio che soffre Vam Gogh 1890 Museo Kröller-Müller, Otterlo Photo wikipedia.org

Una solitudine violenta che contrasta con quella elegante e moderna  di Edward Hopper. Pittore dell’America dei primi del Novecento che vive a settantaquattro scalini sopra il mondo e la sua mondanità. La sua solitudine è silenzio, è un attimo freddo. Come un bel vestito indossato da un manichino in una vetrina vuota. Illuminata da luci sofisticate al neon, ben esposte ma incapaci di comunicare una qualsivoglia emozione.

Edward Hopper – Stanza d’albergo, 1931, Courtesy Museo Thyssen Bornemisza Photo web

I suoi soggetti sono soli anche in rapporto con l’osservatore, non raccontano, volgono il loro sguardo verso qualcosa che allo spettatore non è concesso vedere perchè al di là della sua realtà. Hopper sottolinea questa solitudine moderna ed artificiosa ricreando perfettamente nelle sue opere la sensazione di non condivisibile, vissuta con l’inquietudine del trovarsi estranei al mondo.

Tutto il problema della vita è questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri.  Cesare Pavese

Attraverso le opere di Hopper la solitudine diviene un momento di vita vissuta e nota, ognuno a suo modo ma per niente inusuale, e la congela in un atto unico a se stante ed irripetibile anche se in continua evoluzione.  Una solitudine spiata dalla vita dei suoi soggetti al fine di farla diventare insegnamento per chi guarda condividendola per testimoniarne la sua esistenza. Fermi immagine in cui far urlare l’eremo personale e provarlo attraverso l’altrui esperienza, entrare a farne parte assaporandola e creandone un’esperienza di memoria in religioso silenzio.

Edward Hopper Compartment C Car, 1938

Facilmente ci si può riconoscere nella sua opera Compartiment C Car. Un viaggio in treno, la lettura di un libro che ti estranea dalla realtà. Sentiamo il tempo dell’artista e del soggetto come il nostro tempo, come la nostra solitudine.  Nelle sue opere diventa reale e  possiamo sentirla. Ne siamo consapevoli e possiamo scegliere come viverla.

La grande esclusa dell’arte di Hopper è la comunicazione. I suoi soggetti non cercano nessun tipo di contatto col mondo esterno e non si apprestano a ricercarne l’attenzione, al contrario, sembrano alloggiarsi in uno scrigno in cui custodire i loro pensieri con indifferenza e gelosia.

L’uomo si ritrova, in questo tempo contemporaneo, inascoltato e forse, è proprio da lì che deriva la sua vera emarginazione. Bombardato da molteplici forme di comunicazione sembra non riuscire a coglierne la sua forma più congeniale per entrare in empatia col mondo che lo circonda. Sempre troppo veloce, la vita ci pone in ascolto dell’altro giusto l’attimo libero a disposizione per una pausa caffè. Un caffè dolcificato con quel pizzico di egoismo che pone i pensieri di chi ascolta sempre antecedenti a quelli di chi parla. Una mancanza di affettività che si ripercuote dall’esterno fino al più profondo abisso di ognuno ed è lì che, la solitudine, diventa salvezza.

Se sei triste quando sei da solo, probabilmente sei in cattiva compagnia. Jean- Paul Sartre

A volte però, l’esser soli,  diventa un viaggio necessario all’artista ed il ritiro  si trasforma in una condizione naturale e ricercata per scovare in sé  il genio e provare a comunicare con lui per generare qualcosa di unico e grande come le opere d’arte di Michelangelo Buonarroti.

L’eterno genio della Cappella Sistina fu un uomo solo per sua scelta, abile mutatore della solitudine in una rara qualità di cui ne ha fatto segno distinivo di sè e della sua arte.

Nessuno è più solo di chi è stufo della propria compagnia. Michelangelo

 

Il David Michelangelo Buonarroti 1501-1504 Photo wikipedia.org

Per lui fu una compagna di vita necessaria, il suo confine tra l’uomo e l‘artista. Il luogo in cui  si riveste della sua vera natura ed amore per le forme, le osserva, le studia così da crearne opere perfette. Le dà vita, scolpisce vene e muscoli anche quando dipinge. Accetta la sua natura e la vive, nel suo luogo, come realmente vorrebbe poterla vivere nel suo tempo.  Il suo esser irrequieto, insoddisfatto, incapace di sottostare agli ordini altrui, lì trova pace.

Una solitudine che genera vita e bellezza, sinonimo di quel riuscito contatto con l’Essere Supremo. In silenzio con se stesso durante la creazione della Cappella Sistina, si racconta, che di notte lo si poteva  sentire parlare tra sé e sé, a voce alta, mentre analizzava il suo lavoro e decideva come procedervi. Per Michelangelo, la solitudine era un veicolo verso il divino e solo così poteva trovare lo spunto per rappresentarlo. In essa trovava la dinamicità atta a creare la forza dei suoi personaggi.

 

 

La condizione di uomo solo per l’artista era la realtà, vedere e sentire il vero. Avvicinarsi al divino. Umilmente conoscersi, nonostante il suo continuo bisogno d’affetto che placava guardando l’immensa bellezza delle sue opere. Era critico verso il suo lavoro, ma capace di migliorarsi attraverso l’analisi interiore e concependo se stesso come un altro essere pensante.

Il Mosè Michelangelo Buonarroti 1513-1515

 

I suoi personaggi sono in compagnia con i loro pensieri ed è solo attraverso la loro solitudine che riescono a mettersi in contatto con l’essenza del vivere e con il vero motivo della loro esistenza. Michelangelo non si estranea mai dai suoi personaggi,  inserisce in loro sempre qualcosa di sè, ponendo l’accento sul contributo  che devono apportare alla storia.

La sua solitudine, che genera la vera bellezza dell’arte, è, in realtà, la chiave di lettura necessaria per interpretare la crisi di valori del Rinascimento e, perchè no, anche quella contemporanea.

 

 

 

La solitudine rimane la più misteriosa inquietudine dell’uomo e la più studiata patologia di tutti i tempi. C’è chi la elude fino ad annullarsi, chi la vive come un paradiso che intrappola in se stessi per proteggersi dal mondo e chi, con apparente indifferenza, come una condizione sociale dell’evoluzione moderna, anaffettiva e inconsapevole. Eppure potrebbe diventare un’isola ristoratrice, collocata in una dimensione superiore in cui viene concessa la piena libertà di movimento, dove trovare la propria essenza ed unicità atta a liberare il talento e lasciarlo creare.

In ultima istanza è possibile coltivare il faro della grande contraddizione umana, la solitudine come un’insopportabile moderna inquietudine da cui scappare tralasciando l’antica ed invisibile opportunità per conoscersi intimamente, accettarsi e, come diceva Michelangelo, evolversi.

È importante avere sempre un contenuto da portare in un rapporto, e spesso lo si trova nella solitudine.
Jung

Attraverso la solitudine si può imparare a conoscere noi stessi e ad amarsi creando una sorta di incondizionata e perenne comunicazione con la verità e la lealtà così che, amare gli altri, diventi una scelta e non un ancoraggio per esistere.

…il trovarsi soli con il proprio Sé, o qualsiasi altro nome si voglia dare all’oggettività dell’anima. Essi devono esser soli, non c’è scampo, per far l’esperienza di ciò che li sorregge quando non sono più in grado di sorreggersi da sé. Soltanto questa esperienza può fornir loro un fondamento indistruttibile.
Jung

Un faro od  un capolinea in cui le emozioni si trasformano nelle annose risposte a tutte le inconfessabili domande che non ci permettiamo di porre per paura, per vergogna o per concezione radicata nel dna di ciò che giusto e di ciò che è sbagliato. Accettare la nostra solitudine, attraversarla e disegnarla come un’amica che, con affetto, può disegnarci nel quadro del mondo per completarlo con  la nostra unicità, può mutarsi da angoscia in essenza per la ragione della nostra esistenza.

Bibliografia:

Solitudini. Memorie di assenze  di Paolo Crepet– 25 settembre 2013

Connessi e isolati. Un’epidemia silenziosa  di Manfred Spitzer – 20 settembre 2018

Beata solitudine. Il potere del silenzio  di Vittorino Andreoli– 16 aprile 2019

Solitudine e condivisione nell’arte (Teorie e oggetti delle scienze sociali Vol. 8) di Bertasio Danila

Edward Hopper. Un poeta legge un pittore di Mark Strand Nuova edizione con uno scritto inedito dell’autore. Traduzioni di Damiano Abeni e Moira Egan 2016


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