Keith Haring, tra obvius e arte

Spesso le metafore nell’arte servono a  rappresentare scomode e celate realtà nonostante siano evidenti, forse troppo crude per poter essere accettate da un pubblico filisteo ma proprio per questo attirano di più l’attenzione. Sono immagini che penetrano nel profondo e ci trasportano al di fuori dei confini ovattati di una vita perfetta per accedere alle porte dell’ oltre. L’arte di Keith Haring è quel obvius. Un linguaggio immediato e di semplice accesso che ci viene incontro e ci porta in un mondo apparentemente infantile, abitato da personaggi complessi, sofferenti e spesso relegati ai margini della contemporaneità, nonostante il loro essere estremamente reali.

“L’ arte è per tutti” K. Haring

Di Cristiana Zamboni

Ignorance = Fear K. Haring 1989 Photo Collection Noirmontartproduction, Parigi.

Una pachina del parco è il mezzo migliore, a volte, per poter viaggiare verso nuove dimensioni. E’ un luogo in cui gli spazi temporali, le epoche od il passare del tempo diventano marginali e non hanno confini e ti ritrovi ad oscillare tra Brecht ed una gara di skate, quasi dimenticandoti che, mai come oggi, quei confini sono ben definiti e a causa di una pandemia, invalicabili. Un virus attanaglia l’umanità.

“… c’era voluta un’epidemia per far capire alla gente che le cose potevano cambiare.” Octavia Estelle Butler,  La parabola del seminatore

E’ successo di nuovo e spontaneamente segui il richiamo dei ricordi lasciandoti trasportare verso gli anni in cui l’arte fu al servizio di un’altra battaglia virale, quella contro il virus della Sindrome da Immunodeficienza Acquisita, altrimenti nota come AIDS. Una guerra che ha lasciato molti cadaveri dietro di sè ed ha innalzato molte croci tra empietà, afflizione ed emarginazione in un mondo, per lo più, gesuitico.

Fight Aids Worldwide K.Haring 1990.jpg Photo web

Qualcuno, all’epoca, la definì il volere di Dio e la pena dei peccatori mentre altri lasciavano correre non essendo affar loro. I contagiati vivevano ai  confini di una realtà che non esiste, non per tutti almeno. Una realtà facile cancellare. L’obvius che non esiste, il nemico invisibile ed intangibile.

“Un giorno mi piacerebbe fare un libro fotografico con immagini di me insieme a bambini di tutto il mondo… I bambini sanno qualcosa che la maggior parte della gente ha dimenticato. I bambini subiscono una fascinazione per la loro esperienza quotidiana che è molto speciale e che sarebbe di grande aiuto agli adulti se potessero imparare a capirla e a rispettarla.” Keith Haring

L’arte di Keith Haring è quel obvius distinto da un linguaggio subitaneo e familiare che ci viene incontro attraverso forme apparentemente infantili che portano alla luce realtà complesse, a tratti incomprensibili e troppo spesso negate nonostante siano estremamente contemporanee. Il mezzo con cui l’artista mostra il suo lato più ancestrale e nascosto tra i ricordi di quando era bambino e disegnava con suo padre i personaggi dei cartoni.

 

Keith Haring al lavoro sul suo murale Tuttomondo sul muro della chiesa di Sant’Antonio, Pisa, nel 1989. Photo Arte incorniciata Alamy

 

“Mio padre realizzava per me personaggi dei cartoni animati, e questi erano simili a come disegnavo io – con un’unica linea e un contorno fumettistico.” K. Haring

 

Un’arte colorata e carica di vita che si conclude a poco più di trent’anni quando Haring si spegne sotto la morsa dell’AIDS. Omosessuale dichiarato, sceglie di non relegarsi tra gli emargiati ed attendere la fine, ma amplifica la sua vena artistica e  rivoluziona la sua arte porgendola in aiuto al necessario bisogno di salvare queste vite. Diventa pura comunicazione visiva con l’intento di coinvolgere la società in un nuovo modo di coesistere uniti e mai distinti.

“Self-Portrait for Tony” Keith Haring 1985

Keith Haring riprede e rivede in chiave contemporanea i linguaggi usati nell’epoca classica, quelli tribali, primitivi e quelli dei cartoni animati e della pubblicità mescolandoli in perfetta armonia con quelli che verranno,  immagina lui,  nel futuro per poter rendere il suo messaggio immediato e davvero compreso.

Keith Haring viene alla luce il 4 maggio del 1958 a Reading, una cittadina della Pennsylvania conosciuta anche come Pretzel City . Cresciuto nella vicina Kutztown, da una madre iperprotettiva che decide tutto sulla vita del piccolo artista e da un padre follemente innamorato dei fumetti che comprende velocemente quanto il figlio sia abile nel disegno.  La sua prima opera conosciuta è del 1974, un disegno in cui i fumetti ed i cartoni, gergo prescelto dalla sua comunicazione col padre, vengono miscelati ad alcol e droga, elementi che completeranno il suo trasgressivo futuro. Si racconta che fu la musica ad influenzare le sue immagini, ascoltava i Beatles, i Black Sabbath, gli Aerosmith e gli Humble Pie.

“Ti senti mai è inutile, yeah yeah? Ti senti come lasciare andare? Beh non ti fermi mai e ti chiedi? Sarà il mondo mai cambiare?” Desperation, Humble Pie

 

 

Si diploma alla High School di Kutztown e frequenta la Ivy School of Professional Art di Pittsburgh dove  studia grafica pubblicitaria. Si mantiene lavorando come aiuto cuoco e realizza la sua prima mostra proprio nella caffetteria dove lavora. Comprende che il mondo della grafica non gli appartiene e frequenta  la School of Visual Art di New York dove incontra Samo, alias Jean-Michel Basquiat. Tra i due nasce un’intensa amicizia che li porterà a lavorare insieme e condividere la faccia più delirante del mondo del successo.

Keith Haring e Jean Michel Basquiat al Whitney Museum of American Art, New York, 1987 Photo George Hirose NGV

Ho iniziato ad interessarmi ai graffiti, ero molto affascinato dai disegni che vedevo per la strada e sotto la metropolitana. Erano la cosa più bella che avessi mai visto. Volevo che la gente si sentisse libera di fare esperienza dell’arte senza sentirsi inibita”. K. Haring

Spesso viene multato e persino arrestato per i sui graffiti chiamati anche subway drawings. La sua arte immediata e di facile fruizione diventa un panorama che il popolo delle metropolitane apprezza fino a strapparne i disegni per portarseli a casa. L’artista è fortemente convinto che l’arte sia un bene di tutti, da non rinchiudere in un museo od una galleria dove sono disponibili solo ad una piccola cerchia di eletti che possono permettersi il biglietto d’ingresso. Consapevole che la sua creatività sia aliena e sia un punto di svolta per l’arte contemporanea, in linea con il periodo di forte cambiamento che il mondo culturale e sociale sta vivendo, così come lo è lui stesso.

“I’m Glad I’m Different” K. Haring

Dancing Dogs Keith Haring 1981 Photo web

Nel 1976 vagabondeggia per li Stati Uniti in autostop ed ammira dal vivo alcune delle opere che conosceva solo attraverso le riviste. La cultura hippie, la contestazione giovanile di quegli anni e la libertà trovata si insinuano sotto la sua pelle mostrandogli che essere al mondo è un’immagine artistica che tutti dovrebbero provare con le sue stesse sensazioni. Constata con i suoi occhi che il suo paese è popolato da persone diverse, da colori e voglia di cambiamento.

Volevo intensità nella mia arte, e volevo intensità nella mia vita. Il posto giusto dove andare era New York. Il 1978 per me fu una partenza completamente nuova. K. Haring

Nel 1982 diventa l’assistente di Tony Shafrazi e, nello stesso anno, il gallerista organizza una mostra con le sue opere più sediziose.

Particolare Graffito Muro Berlino Keith Haring Photo web

Nell’ottobre del 1986, a seguito della richiesta del Mauermuseum, Haring dipinge in sole sei ore una parte della zona ovest del muro di Berlino. Con i colori della bandiera tedesca ritrae una lunga e stilizzata fila di figure umane che, unite fra loro, possono disintegrare l’ostruzione alla libertà che il muro rappresenta.  Un lascito universale di evidente comprensione in cui non vi è contemplata nessuna provocazione ma solo un monito per le popolazioni future che pone l’accento sul grande e sollecito bisogno di libertà ed uguaglianza.

“Un muro è fatto per essere disegnato, un sabato sera per far baldoria e la vita è fatta per essere celebrata.” K. Haring

Keith è, oramai, parte integrante dello show business dell’arte, è la stella più gettonata del firmamento della Street Art ed inaugura a  New York, il Pop Shop. Riconosciuto per strada il suo senso di emarginazione si affievolisce e sgrana la sua voglia di arbitrio e condivisione.  Attraverso la sua creatività, l’artista vuole comunicare con lo spettatore lasciando icone disperse per le mura della città così che tutti, indistintamente, possano godere del suo talento e leggervi una replica di aiuto e supporto. Un’arte dedicata agli emarginati, ai fragili ed ai dimenticati. Un’arte capace di trasfondere, anche ai più agnostici, il significato di comunità.

Keith Haring nel 1986 Photo di Joe McNally Getty Images rollingstone.it

Accezione che si trasforma quando decide di mettere la sua arte al servizio  della lotta contro l’AIDS ed ancora oggi la Fondazione fondata da Haring nel 1989 aiuta e sostiene le persone che ne sono affette.

Niente è importante… quindi tutto è importante.” K.Haring

La Street Art di Keith Haring pone l’uomo al centro di tutto e lo presenta al pubblico come un’essere proteiforme nato dall’unione e dalla condivisione di esistenze che sulla stessa terra vivono in solitudine, implosi all’interno delle loro frangibilità. Carestie sociali che accomunano quasi tutti gli uomini, ognuno a suo modo ed ognuno secondo la propria maschera, del resto non si è mai soli nel poliedrico mondo delle fragilità.

L’ Aids, la discriminazione razziale, la minaccia nucleare, la frustazione  giovanile, le dipendenze e le paure sociali, temi cari all’artista, sono la risultante dell’inettitudine sociale abilmente taciuta per non distruggere il sogno del stai sereno.

“Non penso che l’arte sia propaganda; dovrebbe invece essere qualcosa che libera l’anima, favorisce l’immaginazione ed incoraggia la gente ad andare avanti.” K. Haring

Graffiti and visual artist Keith Haring photographed with one of his paintings in April 1984. Photo by Jack Mitchell/Getty Images.

L’umano non cambia, si contorce su di sè  e sulle sue idee nonostante le tragedie ed il susseguirsi ciclici di certi contesti. Di epidemie ne sono susseguite nella storia, ce lo ricordano Manzoni, Camus, Carlo Maria Cipolla, per citarne alcuni, eppure all’imperversare di un nuovo contagio, si ritrova perso e travolto dagli eventi, incapace di prevenirli ed incerto nel contrastarli.

“Io so di scienza certa (tutto so della vita, lei lo vede bene) che ciascuno la porta in sé, la peste, e che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune”. La peste, Albert Camus


Articolo pubblicato anche su ArteVitae.it


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